C’era una volta, in un paese distante, un Mago Nero con la voce gracchiante.
Dagli occhi di fuoco, orrendo di aspetto era malvagio, meschino, rabbioso e gretto.
Solo nella sua spelonca, senz’altro da fare passava ogni giorno nel buio a tramare.
Un dì di pioggia, che era di pessimo umore, decise ch’era il momento di seminare il terrore.
Preso un fornello, un alambicco e un po’ di veleni preparò un intruglio per metter fine ai giorni sereni.
«Bava di rospo, fango, sangue rappreso, terra di cimitero; con questo perfido filtro contaminerò il mondo intero»
Poi, una volta che quel fosco abominio ebbe finito, una formula torva, una scopa magica, et voilà, era partito!
Volando nei cieli bui di una notte senza stelle né luna, sparse la malefica pozione, invocando la malvagia fortuna: gocce velenose piovvero su campagne, città e castelli, inzuppando le case e la pelle di brutti e di belli.
«Due settimane intere e un giorno dovranno passare, prima che giovani e vecchi si mettano ad ansimare.
Poi, man mano che avanzeranno le ore e i minuti, si cominceranno a contare i primi caduti!
E siccome non voglio trascurare la minima cosa, la malattia che sto seminando... sarà contagiosa!»
pensò, planando sul tetto della spelonca orrenda, e s’addormentò sereno, senza saltar la merenda. Vicino al letto aveva riposto di cristallo la sfera, pronto a guardare tutti i notiziari della sera.
Uno per uno trascorsero, lenti, i giorni previsti, senza che la notizia arrivasse a giornali e cronisti. Poi, quando arrivò la mattina del quindicesimo dì, un anziano signore si svegliò, aprì gli occhi e tossì. Lo stesso successe a un robusto contadino,
che starnutì così forte da cadere in un tino; nel palazzo reale era al lavoro un tappezziere
che dalla scala precipitò, schiacciando tre cameriere. Insomma: non era ancora arrivato il tramonto,
che dei contagiati si era smarrito il conto.
A ogni passo s’incontravano persone che stavano male, si esaurirono in fretta i letti di ogni clinica e ogni ospedale.
Il re in persona, informato di questi fatti sinistri, senza esitare convocò a corte tutti i ministri.
«È una malattia grave, delle più sconosciute»
sentenziò solennemente il Ministro della Salute.
«Teniamo in conto anche la rabbia dei parenti degli infermi»
fece presente, tra ampi consensi, il Ministro degli Interni. «L’esercito respingerà chiunque insidi la nostra terra!»
tuonò, bellicoso e fiero, il Ministro della Guerra.
«Prigioni e forca sono sempre pronte» sospirò con mestizia
il severo e inflessibile Ministro della Giustizia.
«Al momento non posso calcolare i danni della pandemia» sospirò, mesto, il responsabile del Ministero dell’Economia. Il monarca, che degli autorevoli pareri non era contento, decise di convocare anche una seduta del Parlamento,
ma tra chiacchiere del Governo e strepiti dell’opposizione, non saltò fuori niente di buono, non fu risolta questione.
«Basta, quand’è così, è a me che spetta ogni decisione!»
dichiarò il Re, senza lasciarsi vincere dall’emozione.
«Ogni suddito resterà chiuso in casa, a doppia mandata, finché ogni insidia del morbo non sarà debellata!»
Così fu fatto, immediatamente, per volontà del Sovrano, e il Regno si trasformò in un posto assai strano:
si chiusero teatri e cinema, si sbarrò perfino ogni chiesa, era lecito uscire soltanto per recarsi a fare la spesa.
Per farsi coraggio, da finestre e balconi, si cantavano, tutti insieme, inni e canzoni.
Siccome, però, tanti sono superficiali e impazienti, le violazioni dell’isolamento si fecero sempre più evidenti. Chi portava fuori il cane, chi correva nel parco, chi passeggiava in strada, infrangendo ogni varco... Insomma, nonostante la collettiva e lunga reclusione,
del contagio non si avvertiva nessuna diminuzione. Si aggirava inquieto il sovrano nella Sala del Regno:
«In un simile dramma, a cosa serve il mio impegno?»
si chiedeva, battendo sui muri i pugni e la testa. «Rivolgermi ai Tre Saggi è l’unica risorsa che resta».
Così l’indomani, convocati senza poter rifiutare, si presentarono a Corte Armillo, Farfolone e Gaspàre.
Tre vecchi dal crine bianco, incartapecoriti e claudicanti, ma avevano studiato assai e conoscevano cose importanti. Quando gli armigeri li fecero entrare, tra squilli di tromba, vedendoli il Re pensò di averli sottratti alla tomba.
«Sapete perché vi ho fatti venire da me?» chiese.
«No, ma sappiamo che vi costerà un salato rimborso spese» rispose, anche a nome degli altri, il dottor Farfolone,
che di quel bizzarro trio era il meno tontolone.
«Penso si tratti di quel nuovo virus, che non è certo morbillo» azzardò con cautela il sapiente conosciuto come Armillo. «Per tutti, notabili, preti e plebei, è difficile assai persin respirare» precisò, con saccente puntiglio, il terzo dotto, Gaspàre. Disse allora il Re: «Sono compiaciuto di tanta sapienza; posso conoscere adesso quale sia la vostra sentenza?»
Si guardarono a lungo, i saggi, concentrati e pensosi, poi muti voltarono le spalle e... buonanotte agli sposi. Lasciando il monarca, letteralmente, con un pugno di mosche, incassato il compenso se ne ripartirono, con le facce fosche.
«Mio amato sovrano, sono così tanto dispiaciuto!» cinguettò una voce di bimbo, fino ad allora rimasto muto.
Era un soldo di cacio dalle gote rosse e dai capelli castani. così piccolo e minuto che sembrava nato... l’indomani.
«Chi sei tu, ch’eri nascosto nei pressi del camino e del fuoco?» chiese il Re. «Io sono Leonardo, il figlioletto del cuoco!»
«Sei un educato, grazioso, tenero e vezzoso ragazzo, ma come starti dietro, se sotto i piedi mi crolla il palazzo?»
«Vuoi dire che mio padre, mia madre e tutti quanti morranno?» mormorò lui, avvicinandosi, tremante, allo scranno.
Sulle gote scendevano, come gemme dorate, le lunghe scie di inarrestabili lacrime salate.
«Non piangere così, caro, è già così difficile, il giorno»
disse turbato il re, guardandosi intorno.
Avrebbe voluto almeno poter confortare quel fiore, ma non c’era rimedio alcuno, per tutto quel dolore.
Il bimbo gli corse incontro, confuso e perplesso, per consolarlo il Re avrebbe sacrificato se stesso.
Mentre lo abbracciava, stringendolo a sé, forte-forte, dimenticò persino che erano ancora aperte le porte;
fu così che a quella scena, così strana e commovente, potettero assistere armigeri, cortigiani e altra gente.
«Se servisse a salvare il contado e questa città cosmopolita, non esiterei un istante, Leonardo, a donare la mia vita»
mormorò il sovrano, spremendo a sua volta lacrime d’amore che si mescolarono a quelle innocenti del piccolo splendore. Ne scaturì una pozione magica fatta di buoni sentimenti che si rivelò assai più forte dei sortilegi più potenti:
fu così che la gran sala fu avvolta da una luce accecante e, miracolo!, gli effetti della epidemia cessarono all’istante.
Per più di un mese, nel Reame si ballò, si cantò e si fece festa, E il Mago Nero? Scomparso nel nulla, s’ignora cosa ne resta.
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